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Come funziona la Webtax e quali sono le sue alternative

Come funziona la Webtax e quali sono le sue alternative

A cura di Crispi Andrea e Marcello Rella, junior associate di Rödl & Partner*
I colossi del web macinano profitti sempre più alti in Italia, ma il Fisco fatica a incassare congruamente. Si calcola che le somme versate nel 2016 all’Agenzia delle Entrate da Facebook, Apple, Amazon, Airbnb, Twitter e Tripadvisor ammontino complessivamente a soli 11,7 milioni di euro. Il caso di Facebook è esemplare: il social più famoso al mondo avrebbe venduto nel 2015, solo in Italia, servizi – in particolare pubblicità – per 224,6 milioni di euro e avrebbe versato al Fisco italiano una somma di soli 203 mila euro a titolo di imposte. Tale circostanza deriva principalmente dal fatto che il colosso di Zuckerberg sia riuscito a far transitare gran parte dei propri profitti attraverso la propria controllata irlandese (ove avrebbe, peraltro, beneficiato delle più favorevoli aliquote di tassazione dei redditi). Nel 2015 la filiale italiana ha registrato soltanto 7 milioni di euro di ricavi (9,3 milioni nel 2016) corrispondenti alla remunerazione relativa ai servizi amministrativi e logistici garantiti alla casa madre.

L’esempio inglese della Diverted Profit Tax

Il problema della tassazione dell’economia “digitale” è oggi oggetto di discussione nelle sedi internazionali e, in particolar modo, in quelle europee, sotto la spinta, principalmente, di Francia, Germania, Italia e Spagna. L’obiettivo è quello di introdurre nuove regole, affinché i giganti dell’economia digitale (e non solo) siano costretti a versare le imposte lì dove effettivamente creano valore. I metodi per raggiungere tale obiettivo sono ancora da definire.
Tra le proposte in esame vi è quella di introdurre una tassazione speciale dei profitti generati attraverso canali “digitali” con un’aliquota fissa (più alta di quella ordinaria), sulla base dell’esperienza del Regno Unito, il quale ha introdotto unilateralmente la cosiddetta Diverted Profit Tax. Tale imposta è fondata sulla presunzione che l’attività svolta sul territorio dello Stato generi di per sé profitti tassabili, i quali vengono colpiti con un’aliquota del 25% (superiore rispetto al 20% di corporate tax britannica), lasciando al contribuente l’onere di dimostrare l’eventuale abuso dell’amministrazione. Si stima che, con l’introduzione di detta imposta, il carico fiscale teorico di Google in Italia salirebbe a circa 130 milioni l’anno e quello di Facebook attorno ai 50 milioni.

L’alternativa indiana

Un’altra opzione consiste nell’eventualità di tassare, con un’aliquota più bassa rispetto a quella sui redditi, il fatturato “nazionale” prodotto dagli operatori dell’economia digitale, sulla scia dell’esperienza dell’India che, nel 2016 ha introdotto un’imposta unica del 6% su tutte le cessioni di beni e servizi effettuate da non residenti. In maniera similare, pare che l’Australia abbia intenzione di intervenire in tal senso, estendendo la tassa sui beni e servizi del 10% (l’equivalente locale dell’Iva) ai contenuti digitali, giochi e software, fra cui anche i servizi di piattaforme di streaming online. Esisterebbero, inoltre, grazie alle nuove tecnologie, strumenti accurati al fine di determinare il fatturato “nazionale” di tali operatori, ad esempio, in base al numero di interrogazioni ricevute da un motore di ricerca, oppure in base al numero di clic registrati da una piattaforma di e-market.

L’introduzione della Webtax

Da ultimo, si sta discutendo anche della possibilità di rafforzare il concetto di “stabile organizzazione”, attribuendo tale status di diritto a tutti gli operatori della rete presenti nel territorio dello Stato. Quest’opzione è fra le più temute dai colossi digitali, perché costituisce un presupposto per l’applicazione delle imposte dirette nazionali. È proprio questo orientamento internazionale, nell’ambito del quale si cerca di arrivare a una definizione di stabile organizzazione “digitale”, che l’Italia ha cercato di seguire attraverso il D.L. 50/2017.
Il provvedimento, ribattezzato Webtax, non introduce in realtà alcuna nuova imposta, bensì disciplina un particolare procedimento, riservato a tutti i soggetti non residenti, indipendentemente dal tipo di attività esercitata, grazie al quale è possibile richiedere all’Agenzia delle Entrate una valutazione in merito alla sussistenza dei requisiti che configurano una stabile organizzazione nel territorio dello Stato, attraverso la quale il soggetto non residente eserciterebbe la propria attività nel territorio dello Stato. Possono accedere a tale procedimento le società con fatturato consolidato del gruppo multinazionale superiore a un miliardo di euro e cessioni di beni e prestazioni di servizi nel territorio dello Stato per un ammontare superiore a 50 milioni di euro, anche avvalendosi di soggetti residenti appartenenti al medesimo gruppo.
Qualora l’Agenzia delle Entrate ritenga che vi siano i presupposti per l’esistenza di una stabile organizzazione, al contribuente viene assicurata la possibilità di estinguere i debiti tributari relativi ai periodi d’imposta per i quali sono scaduti i termini di presentazione delle dichiarazioni, versando le somme dovute in base ad accertamento con adesione con riduzione alla metà delle sanzioni amministrative normalmente applicabili in tale procedura. Inoltre, l’estinzione del debito tributario costituisce causa di non punibilità del reato di omessa dichiarazione. A dispetto del nome, pertanto, non si tratta di una nuova imposta sull’economia digitale, bensì di un provvedimento (pensato in primis per le multinazionali del web) volto a incoraggiare un’emersione spontanea e concordata da parte di tali soggetti che dovrebbe essere facilitata dalla riduzione delle sanzioni e dalla scriminante penale.

Il caso Airbnb

La disposizione introdotta dal D.L. 50/2017 riguarda anche le cosiddette locazioni brevi, definite come i contratti di locazione di immobili a uso abitativo di durata non superiore a 30 giorni – inclusi quelli che prevedono la prestazione di servizi di fornitura di biancheria e di pulizia dei locali – stipulati da persone fisiche (al di fuori dell’esercizio di attività di impresa):

  1. direttamente;
  2. tramite soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare;
  3. tramite soggetti che gestiscono portali telematici mettendo in contatto persone in cerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare

Con decorrenza 1° giugno 2017, ai redditi derivanti da tali contratti di locazione è possibile applicare (su opzione) il regime della cedolare secca, con utilizzo dell’aliquota al 21%. Tale facoltà è riconosciuta anche per i contratti di sub locazione e per quelli di godimento oneroso dell’immobile stipulati dal comodatario. Ai sensi della disposizione, i soggetti di cui ai punti (2) e (3) sopra sono tenuti a trasmettere all’Agenzia delle Entrate i dati relativi ai suddetti contratti conclusi per loro tramite entro il 30 giugno dell’anno successivo. Inoltre, i medesimi intermediari e soggetti che gestiscono portali, qualora incassino canoni o corrispettivi relativi a tali contratti ovvero qualora intervengano nel pagamento dei predetti canoni o corrispettivi, operano (in qualità di sostituti di imposta) una ritenuta del 21% su tali importi all’atto del pagamento al beneficiario. Tale disposizione si applica a intermediari e gestori di portali residenti o non residenti (questi ultimi agirebbero da sostituti di imposta tramite la propria stabile organizzazione eventualmente esistente in Italia, o, ove ne fossero privi, tramite un rappresentante fiscale nominato ad hoc).
*L’articolo è parte della rubrica The Young Desk, se non hai la minima idea di cosa sia clicca QUI