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P2P economy: perché dovresti sapere come funziona il social lending

P2P economy: perché dovresti sapere come funziona il social lending

A cura di Silvia Batello, Giulia Zanatta e Marco Lupoli, junior associate di Rödl & Partner*
Con l’incremento e la diffusione delle nuove tecnologie, negli ultimi anni, è nato e cresciuto un modello economico nuovo basato sulla condivisione di beni materiali, servizi e conoscenze attraverso la rete. Questo modello muta le tradizionali abitudini e le modalità di fruizione di beni e servizi, nonché, di conseguenza, il modo di fare impresa. Come sottolineato anche dal Comitato economico e sociale europeo nel 2014, tale nuova realtà economica, denominata sharing economy, sta determinando la trasformazione concettuale del lavoro, rappresentando una risposta diretta alla crisi economica e finanziaria dell’ultimo decennio e contribuendo al rilancio dell’economia.
La sharing economy è infatti basata sulla condivisione tra privati e sulla messa a disposizione di beni e servizi – tradizionalmente forniti da attori professionisti – attraverso piattaforme online ad hoc, luogo virtuale di incontro tra la domanda reale e concreta e l’offerta. Una delle problematiche principali legate a tale nuovo modello di business consiste nella difficoltà di applicare le regole proprie del modello economico tradizionale, risultando necessaria la scelta tra l’estensione delle regole tradizionali ai nuovi attori economici (regulating up) o una revisione drastica delle regole applicabili ai comparti tradizionali (deregulating down). La questione è dunque aperta e investe aspetti di centrale importanza per l’economia e la crescita: la revisione degli strumenti regolativi, l’individuazione dei “fallimenti del mercato”, il riconoscimento di uno spazio entro il quale sperimentare l’innovazione, la tutela della concorrenza e dei consumatori.

Economia P2P

All’interno del fenomeno generale di sharing economy rientra la cosidetta economia peer-to-peer (P2P), nella quale gli utenti interagiscono tra loro per vendere e comprare beni e servizi senza alcun tipo di intermediazione di terze parti. Nelle operazioni concluse tra parti private, sul presupposto che i soggetti privati siano in grado di decidere senza interferenze esterne il miglior assetto dei propri interessi, il nostro ordinamento interviene solo in maniera eccezionale a regolare quanto deciso dalle parti, lasciando loro ampia autonomia nella formazione e nell’espressione della propria volontà negoziale. In ambito finanziario e creditizio, però, questa possibilità di autoregolamentazione, che prende il nome di peer-to-peer lending o social lending, rischia di incontrare alcuni limiti.

Come funziona il social lending

Il fenomeno peer-to-peer lending consiste nel diretto finanziamento da parte di risparmiatori privati a loro pari o piccole imprese, permettendo a chi offre denaro di accedere ad ambiti di diversificazione del portafoglio altrimenti preclusi e consentendo a chi riceve denaro di adire ai fondi necessari per lo sviluppo del proprio progetto (fondi che, spesso a causa della crisi, sono di difficile reperimento). Fino al novembre 2016, nell’ordinamento giuridico italiano non esisteva una definizione specifica di social lending. Tale fattispecie trovava il proprio fondamento giuridico all’interno della disciplina del contratto di mutuo, prevedendo la consegna da parte di un soggetto di una quantità determinata di denaro o di altre cose fungibili, a fronte dell’obbligo in capo all’altra parte di restituire altrettante cose della stessa specie o qualità, con l’aggiunta eventuale degli interessi espressamente pattuiti.
Con l’emanazione nel novembre 2016 delle “Disposizioni in materia di raccolta del risparmio da parte dei soggetti diversi dalle banche”, e con la loro successiva entrata in vigore a partire dal 1 gennaio 2017, la Banca d’Italia ha definito il social lending come “lo strumento attraverso cui una pluralità di soggetti può richiedere a una pluralità di potenziali finanziatori, tramite piattaforme online, fondi rimborsabili per uso personale o per finanziare un progetto”. L’operatività dei gestori dei portali di social lending, nonché dei soggetti che prestano o raccolgono fondi tramite tali portali, è dunque ora consentita nel rispetto delle norme che regolano l’attività bancaria e quelle di raccolta del risparmio presso il pubblico, di concessione di credito nei confronti del pubblico, di mediazione creditizia, e di prestazione dei servizi di pagamento.
Secondo l’impostazione del P2P Lending in cui la trasmissione del rischio avviene direttamente dal richiedente al Prestatore, senza garanzie sulle somme investite, le piattaforme di P2P non sono enti creditizi, bensì intermediari che selezionano e propongono ai prestatori una nuova tipologia di investimento.

Il mercato europeo

Concept originariamente anglosassone, da un punto di vista generale, i prestiti tra privati hanno contribuito all’evoluzione di un mercato stimato in 3,2 miliardi di sterline, nel 2015, in Inghilterra, a fronte invece di un mercato europeo continentale di appena 578 milioni di euro. Alla base, infatti, vi è una rilevante differenza di approccio: mentre in Inghilterra è stato enfatizzato maggiormente l’aspetto di “nuova tipologia di investimento” del P2P lending, i regolatori europei sembrano invece muoversi enfatizzando la natura creditizia dell’attività, inquadrandolo sotto il cappello regolatorio tipico dell’attività creditizia, considerando dunque tali marketplace come “nuove banche” o alternative ad esse.
In Italia il fenomeno del social lending sta acquisendo una rilevanza sempre maggiore e conquistando una fetta di mercato considerevole. Basti ricordare le principali piattaforme per i prestiti alle imprese, quali Borsa del Credito.it e Lendix, che già nel primo trimestre del 2018 hanno segnato una crescita pari al quadruplo dello stesso trimestre del 2017, o quelle dedicate al P2P per privati, come Prestiamoci, Smartika e Soisy, che segnano una crescita rilevante rispetto all’anno precedente.

Un panorama legislativo ancora frammentario

In conclusione, il modello P2P nel quale gli operatori delle piattaforme svolgono una importante funzione di intermediario, tipica dei modelli della sharing economy quali Airbnb o Uber, sta riscuotendo molto successo. Caratterizzate da un modello di business basato su commissioni e dal fatto che gli operatori raramente si assumono direttamente il rischio di credito, tali piattaforme – quasi dei veri e propri marketplace – presentano numerosi potenziali vantaggi sia per i richiedenti (procedure più rapide, maggiore trasparenza, rapidità nella decisione), che per i prestatori (rendimenti interessanti in relazione al rischio, facilità di accesso al proprio portafoglio in tempo reale e da qualunque luogo, flessibilità nella scelta del grado di rischio e possibilità di investire anche modesti importi ottenendo comunque una buona diversificazione).
Tali realtà si collocano però all’interno di un panorama legislativo internazionale frammentario e non ancora del tutto a passo coi tempi. È necessario quindi fare attenzione: l’operatore che agisce all’interno di questa nuova economia dovrà premurarsi di definire e negoziare il proprio ruolo e la propria posizione nel mercato, minimizzando i rischi e tutelando i propri interessi.
*L’articolo è parte della rubrica The Young Desk, se non hai la minima idea di cosa sia clicca QUI