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Mining e criptovalute: cosa sta succedendo in Cina

Mining e criptovalute: cosa sta succedendo in Cina

A cura di Silvio Rizzini Bisinelli*
Mentre molti avvocati si interrogano su come verrà regolamentato nel proprio Paese il fenomeno delle criptovalute, una serie di fonti giornalistiche (Bloomberg, Reuters) hanno diffuso la notizia relativa all’azione intrapresa dal governo cinese, dopo il divieto delle offerte iniziali di nuove criptovalute (cd “I.C.O.” initial coin offering) e delle attività di trading, anche contro l’attività dei miners. Le autorità cinesi avrebbero, infatti, avviato un piano per limitare il consumo energetico legato al mining e avrebbero chiesto ai governi locali di guidare i miners verso un ritiro “ordinato” dalle loro attività, secondo quanto riportato. Secondo Bloomberg, il 58% dei miners sarebbe stanziato in Cina che approfittando dei prezzi dell’elettricità in alcune aree del Paese avrebbero vampirizzato la rete locale di distribuzione di energia elettrica; ciò avrebbe destato la preoccupazione delle autorità cinesi.
Il tema relativo all’enorme dispendio di energia da parte dei miners è da sempre tema caldo: si stima che il consumo energetico globale legato al mining sia pari a quello di 3 milioni di abitazioni statunitensi, superando il consumo individuale di 159 paesi (stime dell’indice del consumo energetico di Digiconomist Bitcoin). È noto inoltre come, con l’aumentare delle transazioni di criptovalute, aumenta anche il tasso di difficoltà dei calcoli computazionali necessari per la registrazione delle stesse, con conseguente crescita del fabbisogno di elettricità.
Tuttavia, nonostante i valori assoluti appena citati appaiano impressionanti, non è mancato chi ha rilevato come, in termini prospettici, i circa 8,27 terawatt-ora annui consumati dai miners rappresentino meno di un ottavo dell’energia utilizzata dai data center statunitensi (circa 5.7 terawatt-ora sarebbero attribuibili al solo Google), e che rappresenterebbero appena lo 0,21% del consumo totale di energia degli Stati Uniti.

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Le prime reazioni

Secondo quanto emerso, nel corso di una riunione tenutasi alla fine del 2017, sarebbe stata la Banca Centrale Cinese ad aver suggerito al Comitato per il risanamento dei rischi finanziari su Internet, una possibile imposizione da parte dell’Autorità monetaria nei confronti dei governi locali di politiche atte a regolamentare l’uso di energia connessa alle attività di mining per ridurre gradualmente la scala della loro produzione. Le reazioni a tale stretta del governo cinese non si sono fatte attendere, con i titolari dei collettivi di mining stanziati in Cina che hanno rilasciato una serie di dichiarazioni relative alla possibilità di una emigrazione verso altri Paesi per lo svolgimento della propria attività.
Bitmain, che gestisce i due maggiori collettivi di miners presenti in Cina, sta attualmente avviando la propria sede centrale in territorio singaporiano, dopo aver già ampliato la propria rete di attività in Paesi quali il Canada e gli Stati Uniti. Oltretutto, non mancano – sempre per Bitmain – orizzonti verso il Vecchio Continente, come dimostrato dalla recente istituzione di una subsidiary a Zug, in Svizzera, sotto il nome di Bitmain Switzerland, della quale è stato riconosciuto il ruolo strategico per lo sviluppo globale della loro attività di mining. Infatti, mentre la Cina sembra optare per una politica molto stringente, la Svizzera – e in particolare la municipalità di Zug – hanno riconosciuto regimi fiscali agevolati per le attività collegate alle cripto valute, tanto da essere stata fondata un’associazione di settore, la “The Crypto Valley Association”, ed aver creato un vero e proprio hub per le industrie collegate alle criptovalute, attirando nel proprio territorio broker, asset manager e società di exchange, tra cui la Etherum Fundation.
Dichiarazioni che fanno presagire un abbandono del territorio cinese sono state rilasciate anche da Jiang Zhuoer, fondatore di BTC.top, terzo player globale nel settore del mining, il quale ha affermato di considerare Iran e Russia come possibili destinazioni per lo svolgimento della propria attività, dopo aver già avviato impianti in Canada, dati i bassi costi energetici e la stabilità politica del Paese.

Un impulso alla regolamentazione

Sotto il profilo finanziario, le conseguenze della possibile stretta del governo cinese sono state rilevate anche sul mercato delle criptovalute in generale, registrando importanti diminuzioni dei prezzi, equivalenti a un 11% per il bitcoin (BTC), 27% per il Ripple (XRP) e 14% per il Litecoin (LTC). Tali fluttuazioni nel marcato delle cripto valute non sono inusuali nel mercato, a fronte di prese di posizione dei diversi soggetti politici del mondo; e l’impatto che la diminuzione della velocità delle transazioni potrà avere sul prezzo delle cripto valute sembra destare preoccupazioni solo nel breve periodo, dati i dichiarati progetti di nuova localizzazione degli impianti di mining, come riportato a fronte.
Ad ogni modo, come rilevato da alcuni analisti, il fenomeno è manifestazione di un generale impulso verso la regolamentazione delle criptovalute che sta manifestandosi specie nei paesi orientali, veicolato dal diffuso interesse mostrato dai cittadini asiatici per lo strumento e dalla rapidità di normazione propria di regimi politici dirigisti. La scelta della Cina, ufficialmente ricollegata alla interferenza che il fenomeno del mining ha sull’economia reale (distrazione di energia dalle attività pianificate) e sulle sue possibili ricadute sociali, getta luce su un nuovo scenario globale, che merita una accurata riflessione.

Geocalizzare l’attività di mining

L’attività di mining è stata giudicata fonte di una ricchezza scomoda, sia per la ricchezza concentrata nelle mani dei depositari della tecnologia sempre più complessa necessaria all’attività computazionale e incontrollabile, sia per il fatto che le autorità governative, ad oggi, non dispongono di efficienti sistemi di misurazione dell’esito dell’attività di mining, dei flussi finanziari e dei depositi di ricchezza in criptovalute (wallet). Ma la generazione di questa ricchezza nelle mani di pochi (che necessariamente devono essere già notevolmente ricchi per potersi dotare degli hardware necessari) viene valutata avere anche una ricaduta negativa sull’economia reale sottraendo l’energia all’uso comune di molti.
L’effetto prevedibile è che l’attività di mining sarà geolocalizzata in base a fattori legati al costo e alle politiche di utilizzo dell’energia, alla forma di governo del Paese ospite, alla stabilità sociale, alla sicurezza percepita e, solo alla fine, all’effettiva regolamentazione locale delle criptovalute. L’El Dorado del miner è un Paese con bassi costi dell’energia (e quindi un paese estrattore di potenziali carburanti fossili, o che abbia accesso alle tecnologie di produzione delle energie rinnovabili), non esageratamente energivoro (e quindi presumibilmente un Paese in via di sviluppo), in cui il consumo di energia a scopo di mining non contrasti con le politiche economiche nazionali. Ma considerato l’elevato costo dei mezzi di produzione dell’attività di mining, e cioè dei server che computano i dati necessari alle transazioni, deve essere un Paese che garantisca una certa stabilità e la sicurezza degli impianti e per gli operatori. In un Paese del genere un patto sociale potrebbe prevedere, ad esempio, una tassazione indiretta del consumo energetico destinato al mining, i cui proventi potrebbero essere utilizzati per fornire ai miners quella garanzia di stabilità e sicurezza di cui si diceva al paragrafo precedente.
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Tre possibili El Dorado

Volendo azzardare qualche previsione è possibile pensare a una lista di tre differenti Paesi che in futuro potrebbero ricoprire un ruolo di questo tipo.
Il primo è il Kenya, che sta puntando non solo sul sole africano, ma anche sul geotermico e sull’eolico per alimentare il suo futuro e ridurre la dipendenza dalle importazioni di energia elettrica. A partire dal 2015, il geotermico ha rappresentato il 51% del mix energetico del Kenya, un grosso balzo rispetto a solo il 13% del 2010. Il Paese sta anche puntando fortemente sul vento, con la costruzione del più grande parco eolico dell’Africa (da 310 MW) che contribuirà per il 20% alla capacità di produzione di energia elettrica nel Paese. I due sistemi combinati aiuteranno il Kenya a generare il 71% della sua energia elettrica da fonti rinnovabili.
Dall’altra parte dell’oceano anche Costa Rica e Nicaragua stanno implementando le fonti di energia rinnovabile al fine di ridurre i costi dell’energia elettrica. Il Costa Rica soddisfa una percentuale enorme del suo fabbisogno energetico utilizzando idroelettrico, geotermico, solare, eolico e altre fonti a basse emissioni di CO2. Il Nicaragua sta puntando ad arrivare al 90% di energia rinnovabile entro il 2020, con la maggior parte dell’energia che proverrà da fonti eoliche, solari e geotermiche.
Ma non dimentichiamo che nel Vecchio Continente il primato per lo sviluppo delle energie rinnovabili spetta alla Svezia, la quale registra, inoltre il costo più basso dell’energia elettrica (circa 0.005/KWh) e in cui il rapporto tra energia e imposte e oneri risulta essere il più basso dell’Eurozona.
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Il supporto di Rödl & Partner

Negli ultimi tempi, l’impatto delle attività di mining e tutti gli aspetti connessi alle criptovalute e alla tecnologia blockchain hanno destato interesse e preoccupazioni di vari player globali, dalle autorità nazionali ai governi, ai professionisti del settore finanziario. Molti governi hanno avviato una stagione di discussione sulla possibile regolamentazione delle tecnologie decentralizzate e delle riserve di criptovalute: lo scenario è in continua e rapida evoluzione con disegni di legge, linee guida e regolamentazioni che andranno a colpire detentori, operatori mining, exchanger e ogni soggetto che abbia a che fare con le criptovalute. Il nostro Studio si è concentrato sui vari aspetti che interessano tale settore e le possibili implicazioni per i nostri clienti, per cui siamo impegnati a tenere monitorate e a pubblicare le informazioni raccolte sulle evoluzioni legislative e fiscali nei principali Paesi interessati al fenomeno delle criptovalute.
*Avvocato e partner dello studio Rödl & Partner (nella foto a sopra)