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L’impatto della gig economy sul mondo del lavoro (e non solo)

L’impatto della gig economy sul mondo del lavoro (e non solo)

A cura di Sara Rossi e Michele Donvito, junior associate di Rödl & Partner*
L’espressione gig economy, in italiano ribattezzata “economia dei lavoretti”, è stata coniata per trovare una definizione comune a diversi fenomeni influenti sul sistema economico e sul mondo del lavoro, identificabili come diretta conseguenza dell’innovazione tecnologica e della crisi economica che hanno caratterizzato l’ultimo decennio. Ma quali sono le principali ripercussioni della gig economy sul mercato e sul diritto del lavoro? Quali sono le criticità, i vantaggi e i possibili sviluppi futuri? L’espressione “Workers on tap”, coniata dall’Economist per racchiudere le due diverse espressioni della gig economy – il Crowdworking e il Work-on-demand attraverso le App – rende molto bene l’idea della forza lavoro richiesta: “just-in-time”, da reperire in fretta, pagare solo se effettivamente utilizzata e alla quale le aziende non sono tenute a restare legate per anni.

Effetti positivi e criticità del Crowdworking

Come accennato, sono principalmente due le modalità attraverso le quali i gig workers svolgono la loro attività. Innanzitutto il Crowdworking, cioè la messa a disposizione su piattaforme online di incarichi molto semplici da svolgere da remoto, coinvolgendo dunque prestatori da tutto il mondo, e poi il Work-on-demand, ossia la ricerca di lavoratori, che si rendono disponibili attraverso delle App, per svolgere servizi di vario genere di persona nel mondo reale. Gli esempi di Crowdworking sono numerosi, anche se va detto che questo tipo di lavoro è più diffuso all’estero e non ha ancora una vasta diffusione in Italia. Le piattaforme più utilizzate sono Amazon Mechanical Turk e Crowdflower. Attraverso di esse compiti molto semplici, come taggare delle immagini, ma anche più complessi, come giudicare l’orientamento di un articolo online, vengono distribuiti a lavoratori sparsi per il mondo, pagati attraverso moneta virtuale (crediti Amazon o PayPal).
Questo fenomeno ha notevoli effetti positivi. Per esempio dà la possibilità a persone, che a causa di una disabilità non possano lasciare la propria casa, di rimanere attive guadagnando delle piccole somme di denaro e permette a soggetti che si trovano in zone economicamente depresse di accedere a un impiego. Iniziative di Crowdworking come l’App Give Work hanno permesso addirittura ai profughi dei campi per rifugiati in Kenya di lavorare online, restituendo loro la possibilità di provvedere alla propria famiglia.
Dall’altro lato, questo tipo di attività ha anche numerose criticità: i prestatori di lavoro vengano pagati molto poco; non esiste un diritto di associazione, problematica acuita dal fatto che i prestatori siano sottoposti a una malsana concorrenza tra lavoratori a livello globale; mancanza di trasparenza nella gestione delle recensioni dei clienti, che amplia il rischio di discriminazione. Uno dei più rilevanti motivi di critica verso queste attività, tuttavia, riguarda gli aspetti di salute e sicurezza sul lavoro. Infatti, dovendo competere con numerosissimi altri utenti per guadagni minimi, i crowdworkers non saranno incentivati a procurarsi costosi strumenti a salvaguardia della propria salute, come ad esempio sedie e tastiere ergonomiche, o ad assicurarsi i momenti di disconnessione necessari per il mantenimento di una buona vista.

Lo sviluppo del Work-on-demand

Oltre al Crowdworking, negli ultimi anni si è fortemente sviluppato anche il Work-on-demand, grazie al quale lavoratori e clienti vengono messi in contatto attraverso apposite applicazioni per cellulari. Questo settore si è fortemente sviluppato anche in Italia, sia attraverso attori multinazionali che locali. Società come Deliveroo, Uber, Foodora Vicker forniscono piattaforme elettroniche che facilitino l’incontro tra domanda e offerta di piccoli incarichi di diverso genere (consegna di cibo a domicilio, passaggi in auto, autolavaggio, personal training). I prestatori di tali servizi sono inquadrati giuridicamente come lavoratori autonomi ma le cause volte al riconoscimento dello status di dipendenti ai gig workers si stanno moltiplicando e, nonostante le aziende in questione continuino a ritenersi terze rispetto all’eventuale rapporto tra prestatori e loro clienti, alcune corti hanno già cominciato a riconoscere che tale estraneità non è poi così granitica. Negli Stati Uniti, per esempio, Uber e Lyft sono già state condannate al riconoscimento dello status di lavoratori subordinati ad alcuni dei loro autisti.
In particolare, nel caso “O’Connor ed altri Vs Uber”, la Corte Distrettuale del Nord della California ha ritenuto che Uber non potesse essere inquadrata come società di tipo meramente tecnologico, ma vada qualificata come una vera e propria società di trasporti che, per fornire i propri servizi, si serve appunto dei conducenti. Sulla base del diritto dello Stato della California, poi, se una società presta dei servizi attraverso un soggetto, a questo va, in via presuntiva, riconosciuto lo status di lavoratore subordinato e spetta alla società, invece, provare che si tratti di un collaboratore autonomo. Ciò ha reso, senz’altro, più semplice il riconoscimento dello status di subordinato all’autista di Uber. Vi sono stati casi simili anche nel Regno Unito, dove la questione è stata risolta attribuendo la qualifica di workers agli autisti di Uber, una categoria che non implica la subordinazione ma che estende l’applicazione, ai workers appunto, delle norme sul minimo salariale, sulle ferie e sulla malattia.
Questo tipo di pronunce è, tuttavia, ben lontano dall’attuale posizione della giurisprudenza in Italia, dove da anni la Cassazione ha preso posizione riguardo lo status da riconoscere ai pony-express, gli “antenati” degli odierni riders. Non più di 6 anni fa, la Cassazione confermava ancora una volta che, per escludere la natura subordinata del rapporto tra un’agenzia e un fattorino incaricato delle consegne, vada valorizzata l’autonomia decisionale di quest’ultimo sul quomodo e sul quando svolgere la prestazione (con riguardo a indici quali l’itinerario da percorrere, la proprietà del mezzo di locomozione, gli oneri di gestione ed rischio di impresa a carico del lavoratore). Tutti questi indici, in effetti, se applicati ai riders, farebbero propendere per la loro effettiva autonomia. Tuttavia, vi sono anche molti elementi che porterebbero alla conclusione opposta, ossia al riconoscimento della subordinazione, a titolo esemplificativo, la messa a disposizione delle divise, l’obbligo di indicare orari di disponibilità inderogabili e quello di garantire degli standard minimi di servizio che, qualora non trovino riscontro in recensioni positive, possono portare alla disattivazione dell’account del rider. Recentissimamente, il Tribunale di Torino ha negato ai riders di Foodora il riconoscimento dello status di lavoratori subordinati, ma questa è solo la prima delle numerose sentenze che, nei prossimi anni, invaderanno la giurisprudenza italiana, costringendo anche la Cassazione a verificare se la propria posizione sui pony-express sia ancora attuale ed applicabile anche ai nuovi lavoratori delle app.

Possibili soluzioni

Le nuove forma di occupazione, introdotte dalla gig economy, rappresentano certamente una valida risposta alla crisi, in termini di incremento del reddito, per chi ha già un’altra occupazione, o di possibilità di avere degli introiti anche durante la ricerca di un posto di lavoro. Tuttavia, sono anche fonte di non poche problematiche: i gig workers non hanno alcuna sicurezza riguardo il proprio reddito; sono soggetti a una competizione fra lavoratori molto ampia, che tiene i compensi ben al di sotto di quelli minimi; non hanno alcun limite al proprio orario di lavoro; non sono protetti dai rischi per la loro salute e sicurezza e non godono del diritto di associazione sindacale (una delle rare eccezioni in questo senso è la rete “Fair Crowd Work” creata dal sindacato tedesco IG Metall).
Identificare le possibili soluzioni a tali criticità non è certamente semplice. Alcuni autori hanno ipotizzato la creazione di un tertium genus a metà tra subordinazione e lavoro autonomo, un “dependent contractor” che, se da un lato potrebbe offrire qualche forma di tutela anche ai lavoratori che non siano chiaramente riconducibili alla categoria della subordinazione, dall’altro, potrebbe anche avere effetti negativi per lavoratori e datori di lavoro. Tale categoria, infatti, potrebbe da un lato essere sfruttata per ricondurvi moltissime forme di lavoro, cui ad oggi viene riconosciuto lo status di subordinato, mentre dall’altro potrebbe, se non definita in modo netto rispetto alle altre categorie, esporre le aziende al continuo pericolo di riqualificazione del rapporto. Altri autori, hanno invece ipotizzato modalità diverse per tutelare i gig workers, pur senza attribuire loro lo status di subordinati. Per esempio, un primo passo potrebbe essere quello di assicurare maggiore trasparenza nei ratings e nelle recensioni, evitando possibili discriminazioni, oppure di garantire ai gig workers la portabilità da un’App all’altra dei buoni ratings ottenuti, diminuendo così la loro dipendenza dall’azienda di cui sono providers. Altri propongono, invece, di permettere ai lavoratori della gig economy di organizzarsi per procedere a una contrattazione collettiva delle condizioni minime di lavoro, ma anche in questo caso si tratta di un tema complesso.
La forza lavoro coinvolta dal Work-on-demand e dal Crowdworking è molto eterogenea e quindi ha interessi divergenti, che difficilmente potrebbero essere armonizzati in un unico contratto. C’è chi fa dei “lavoretti” solo per avere una seconda fonte di guadagno con cui arrotondare e chi lo fa saltuariamente, ma ci sono anche quei lavoratori che traggono tutto il loro reddito da questo tipo di prestazioni. Gli interessi di queste categorie di lavoratori sono assolutamente diversi: mentre i primi hanno bisogno di assoluta libertà e flessibilità e non vogliono che il loro rapporto venga riqualificato in subordinato, gli altri vorrebbero maggiori tutele. Non è facile, dunque, prevedere le conseguenze nel lungo periodo della gig economy, si tratta di un fenomeno con tutte le potenzialità di lasciare la propria impronta sul mondo del lavoro e che per questo motivo operatori del diritto e chi si occupa di public policies dovranno affrontare in maniera molto più invasiva di quanto è stato fatto finora.
*L’articolo è parte della rubrica The Young Desk, se non hai la minima idea di cosa sia clicca QUI