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I principali consigli emersi all’Inbound Strategies per migliorare il proprio business

I principali consigli emersi all’Inbound Strategies per migliorare il proprio business

Venerdì e sabato 10 e 11 marzo si è svolto a Sesto San Giovanni, Milano, l’Inbound Strategies, evento organizzato da Seo Cube e Seochef dedicato all’inbound marketing e alle tecniche SEO necessarie per migliorare il proprio business. La rilevanza sul web e la pertinenza dei contenuti con le ricerche effettuate dagli utenti sono elementi alla base delle azioni di marketing di ogni brand, per questo motivo i motori di ricerca sono una delle piattaforme più influenti per tutte le fasi di un business digitale di ogni marchio, dall’awareness alla conversione.
L’impostazione dei contenuti di un sito, specialmente se dedicato all’ecommerce, deve superare alcuni luoghi comuni fuorvianti e seguire un percorso che sia il più logico possibile. I link correlati e quelli suggeriti non fanno eccezione. “Bisogna seguire la logica, senza preoccuparsi eccessivamente delle richieste di Google. Ad esempio, se un utente cerca un paio di scarpe non è necessario suggerirgli le calze, sebbene questa sia statisticamente la ricerca più frequente. Se per esempio l’user è un uomo, e cerca calzature nella sezione uomo, questo con buona probabilità non sarà interessato a comprarle”, ha spiegato a riguardo Ivan Cutolo, ceo di Seochef. Logica, abbinata all’ordine. Se un portale di ecommerce vuole proporre un blog a supporto dei suoi prodotti, il suggerimento è fare attenzione a non utilizzare le stesse keyword delle pagine prodotto. In questo caso, infatti, le due destinazioni si pesterebbero i piedi. “La chiave di ricerca Scarpe Da Donna deve stare nella pagina prodotto, ogni keyword ha bisogno di stare al suo posto”, continua Cutolo. “Nel blog, che sarebbe meglio inglobare nel sito invece di creare un sottodominio, sarebbe meglio creare articoli riferiti al contorno più che ai prodotti. Ad esempio, come aggiustare un tacco che si è rotto.”

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Ivan Cutolo

Un suggerimento utile, quello di una proposition chiara e univoca, per evitare il “pogo stick”, ovvero il click sul tasto “back” del browser per tornare alla pagina precedente. “Google è in grado di rilevare i click sul bottone “back”, e considera questa azione come una discrepanza tra la query e il risultato cliccato. I casi possono essere diversi: spam, contenuti confusi, errori, sito non esaustivo, scarsa visibilità, presenza di pop up, video in autoplay, caricamento troppo lento”, ha concluso il ceo di Seochef. Questo perché Google vive di SERP, quindi non ammette errori su questo punto: la cattiva posizione dipende fondamentalmente da sé stessi e dalla precisione con cui si lavora sul sito.

Attenzione al semantic web

Il SEO va poi distinto dal semantic web, attività spesso sovrapposte, erroneamente. Gli algoritmi semantici scandagliano il web e hanno bisogno di leggere più volte ogni testo per riuscirlo a interpretare. “Ma internet vive di confusione e di novità costanti che danno vita ad argomenti sempre nuovi. Google non si può permettere il training su un argomento, ovvero l’inserimento manuale di una nuvola di keyword e testi, e quindi non utilizza gli algoritmi semantici. Se non per interpretare le query. Il semantic web ci permette di fornire a Google informazioni, e lui risponderà seguendo un percorso di micro-informazioni, le cosiddette “triple”, sparse per i siti, che lo condurrà a una risposta in tempi molto brevi. Queste triple sono sparse per i siti e li collegano logicamente”, ha argomentato Ivano Di Biasi, ceo & project manager presso SEOZoom. Google però offre un supporto per la corretta costruzione di una pagina web, indicando quale elemento o quale parte di testo non è stata ben composta. “Tiene anche conto della veridicità delle informazioni pubblicate dal sito”, continua Di Biasi. “Non tutte però hanno lo stesso peso: ricette, eventi e prodotti non sono soggette a un controllo evidente. Gli eventi scadono dopo poco tempo, le ricette possono avere più di un metodo di preparazione e non è facile analizzare un prodotto. Quello che invece è controllato strettamente dal motore di ricerca è tutto ciò che riguarda le “entità”: la loro definizione, i fatti che le riguardano, le relazioni che intercorrono tra loro e le nuove proprietà”. Le “entità” sono i soggetti concettuali che reggono determinate proprietà. Per esempio l’entità “albero” può avere proprietà diverse, come il nome in greco “dendro”, o in inglese “tree”, o in italiano stesso “albero”, ma fa sempre riferimento allo stesso concetto: “impostare una strategia corretta permetterà di conquistare la “Trust” di Google, e se il motore di ricerca ha fiducia nel nostro sito, questo migliorerà la sua posizione e di conseguenza il traffico”.

I comportamenti dei consumatori e il neuromarketing

Il neurologo Antonio Damasio dopo anni di ricerca è arrivato alla conclusione che le emozioni condizionano completamente le scelte. Spostando il discorso sul piano della comunicazione potrebbe quindi essere scontato il richiamo al marketing emozionale, tuttavia il passaggio non è così immediato. Secondo Andrea Saletti, web marketing manager di Pronesis, “il marketing emozionale non convince persone a comprare prodotti che non gli stiano già a cuore”. L’effetto di un brand o di un ecommerce sull’utenza deve ricordare quello “del famoso esperimento del cane e della campanella. Al momento del pasto, il padrone suona la campanella. Quando il cane si sarà abituato, il solo suono della campanella gli provocherà l’acquolina”. Il metodo proposto da Saletti per la creazione di un portale di ecommerce, influenzato dalle tecniche di neuromarketing, passa per la creazione di un target demografico, costruendo buyer personas sullo storico dei clienti o sul crm aziendale, e sulla costituzione di psico-profili, i tratti psicologici che definiscono le buyer personas principali. Ovvero ciò per cui le persone non scendono a compromessi. “Bisogna miscelare le strategie dirette ai consumatori che acquistano in modo compulsivo, spontane, competitivo e umanistico”, ha affermato Saletti. “È molto utile individuare le design personas: individuare quindi i possibili obiettivi dell’utente del sito e i percorsi che fanno per raggiungerli. Per capirli è possibile utilizzare una combinazione di encefalogramma ed eye tracking”. Il messaggio che deve passare è semplice per Saletti: “Bisogna smettere di inserire elementi nei siti e iniziare a pensare di dialogare con una persona. Per il cervello umano, facile vuol dire vero. Ma che vuol dire rendere facile un sito web? La risposta è: ottimizzare il tempo di caricamento, i prezzi delle merci e gli sforzi cognitivi per arrivare all’obiettivo, eliminare le routine e inserire call to action.”

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Andrea Saletti

Secondo il web marketing manager di Pronesis, a livello inconscio, ogni consumatore si pone 6 domande a cui le varie attività online devono saper rispondere prontamente con possibili soluzioni:

  • Questo sito dovrebbe piacermi? Fase in cui il consumatore percepisce interessante e giusto ciò che è bello, e questo suggerisce, a livello grafico, una forte attenzione agli allineamenti e ai dettagli. L’inserimento di volti umani e di persone cancella la spersonalizzazione dell’ecommerce e stimola l’ossitocina, neurotrasmettitore che aiuta ad avere legami più stretti con le persone dello stesso gruppo
  • Cosa vendono sul sito? L’inserimento di una value proposition, la frase che spiega cosa si vende e come si vende, è in questo caso un’integrazione fondamentale alla mera proposta dei prodotti
  • E adesso cosa faccio? Una soluzione può essere l’inserimento di call to action sparse per la pagina e suggerimenti sulle azioni da compiere
  • Dove sta la fregatura? La rassicurazione dell’utente passa da commenti visibili e da elementi posti vicino al bottone d’acquisto, come garanzie o modalità di consegna e pagamento
  • Cosa ci guadagno a comprare da qui? In questo caso è necessario spostare lattenzione sulla persona, utilizzando, nelle schede prodotto, descrizioni dirette all’utente. Per esempio, in un ecommerce di occhiali, accostare alla descrizione tecnica delle lenti i benefici che portano alla vista
  • Perché dovrei parlarne in giro? Una strategia di gamification o la proposta di sconti in finestre di tempo definite possono essere un buono stimolo a farlo

Saletti chiude l’intervento con due preziosi consigli. “Se il prodotto proposto su un sito di ecommerce ha un costo superiore alla media, puntare sulle call to action non è una strategia prolifica. Si evidenzierebbe il prezzo. Per questo è meglio spostare l’attenzione sul prodotto, in modo da puntare sulla percezione del suo valore. Quindi dare spazio all’immagine e ridurre, e mettere da parte, il bottone di acquisto. Convincendo l’utente del valore del prodotto sarà più invogliato a comprarlo. Questa è l’esperienza cognitiva reale del cervello”. I portali di ecommerce devono poi somigliare più a un dialogo che a una vetrina: “Quando ci focalizziamo sugli obiettivi di business, più che sul come parlare alle persone, ci dimentichiamo delle cose veramente efficaci. Umanizziamo il web. Oggi si progettano pagine con le persone, non per le persone.”

L’importanza della valutazione delle metriche di lavoro

Di metriche e tool ha invece parlato Massimo Fattoretto, esperto di Link Building e formazione nel campo del SEO. Il SEO ha due anime, una interna al sito, la cosiddetta “on site” e una esterna, meglio nota come “off site”. Dopo aver curato la parte on site che ovviamente è primaria, è utile comprendere come monetizzare anche con quella off site. Proprio in questo caso entra in gioco il tema del servizio di link building . Questo ha lo scopo di migliorare il posizionamento su Google, costruire una buona brand reputation, aumentare la visibilità e di conseguenza far crescere il traffico sul proprio dominio. Tutte queste operazioni sono necessarie a evitare il cosiddetto “Ban” da Google, il peggiore destino che potrebbe incontrare un sito web. La compravendita di link è un processo complesso e bisogna saper valutare la qualità delle metriche per renderla efficace e i backlink che si ricevono dai domini esterni. Prima del 2012 acquistare link era semplice e funzionale ma nel tempo Google si è evoluto e ha iniziato a valutare i siti con metriche di rilevanza più restrittive. Alcune delle metriche in questione riguardano la propria strategia di guest posting (la pubblicazione su altri siti) dei domini referenti, l’attenta analisi dei competitor, la scelta degli anchor text (link ad altri siti per la propria pagina) e via dicendo. Per intenderci, inserire troppi link esterni ad una pagina risulterebbe controproducente. Importante è quindi fare una scelta accurata di questi ultimi, perché, ad esempio, potrebbe essere utile preferire un link ad un sito con una certa autorevolezza a molti altri posizionati meno bene nella search. Per l’analisi dell’efficacia della propria strategia di link building esistono molti tool, tra i più importanti Majestic e Seozoom o Url profiler che integra tutte le metriche utilizzate dagli altri tool sul mercato. Un buon backlink proviene da fonte autorevole, ha un alto livello di trust, parla la stessa lingua del sito dove approda, appartiene alla stessa nicchia, non prevede scambi di link o directory. Fondamentale è anche la variazione di IP, la corenzenza di topic e tematica verticalmente rispetto al settore di interesse, la posizione all’interno della pagina, che tipo di backlink riceve il dominio e offrire contenuti freschi. Attrarre link spontaneamente è molto difficile quindi uno degli accorgimenti più importanti è creare contenuti davvero interessanti e che per i lettori siano informativi e realmente utili.

Gestire i referral link sulle URL del proprio sito

Matteo Zambon, amministratore di In Risalto e fondatore di Tag Manager Italia, ha chiarito una funzione di Google Analytics molto utile ai fini del posizionamento ma che molto spesso viene sottovalutata in quanto Google la applica in automatico e non tutti sanno che, invece, si può gestire per renderla più efficace. Si tratta della gestione dei referral sulle URL del proprio sito. Che cos’è un referral? Non è altro che la sorgente di provenienza di un link. Google Analytics riconosce vari tipi di sorgenti o raggruppamenti di canali di provenienza come, ad esempio, l’organic search, la direct, la paid search, social, email, display o altro advertising. Sono per intenderci le categorie che Google di default gestisce e associa a un contenuto. Ma le variabili sui referral possono essere anche utilizzate per delle finalità non automatiche che garantiscano un miglior posizionamento. I parametri UTM vengono in aiuto per raggiungere questo scopo, ad esempio, permettono di aggiungere elementi nell’URL per aumentarne l’efficacia.
Gli UTM sono gestiti da cinque parametri che servono al tracciamento in Analytics, tre sono obbligatori ai fini del riconoscimento e sono: sorgente, mezzo, e nome. La sorgente identifica la fonte del referrall, ossia del link o del traffico che sta arrivando sul sito, il mezzo identifica il canale ad esempio la campagna facebook o il banner attraverso il quale l’utente è entrato sul sito, e il nome può identificare tutti gli altri elementi. Il vantaggio di profilare, ad esempio, la sorgente che si intende spingere nello specifico e non affidarsi semplicemente alla scelta automatica di Google è già enorme. Ci sono poi altri parametri ossia il termine attraverso il quale l’utente è atterrato sul sito e il content che serve a fare, ad esempio, degli A/B test per gestire un contenuto diverso, ma si tratta di parametri non obbligatori e più spesso utilizzati nelle campagne a pagamento. Per inserire questi parametri è possibile utilizzare un tool di URL builder creato ad hoc da Google ma il processo è piuttosto macchinoso. Cosa ha a che vedere, dunque, Google Tag Manager con i parametri UTM? Semplicemente permette di semplificare ulteriormente il processo appena descritto. Attraverso il tag management, gli UTM possono essere configurati più agilmente. Inoltre, c’è un vantaggio in più: gli UTM rimangono invisibili nel testo della URL evitando che questa risulti troppo lunga.